La rivoluzione dei big data

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Nell’ultimo periodo, da più parti è stata chiesta a gran voce una maggiore possibilità di accesso ai dati. Ma c’è il rischio che questi ultimi finiscano nelle mani di chi, non essendo in grado di interpretarli, li impiega per confermare i propri pregiudizi.

Il 2020, oltre a essere stato l’anno della pandemia, è sicuramente stato anche l’anno dei dati. Da quando il primo caso di contagio è stato registrato nel nostro Paese abbiamo iniziato a fare i conti, in modo molto più concreto del solito, con i numeri: quelli dei contagi avvenuti, quelli dei posti occupati in terapia intensiva, quelli, purtroppo, dei decessi. Poi, ecco arrivare senza pietà i dati sulla contrazione dei consumi, sul Pil, sulla scuola…  E tutta questa massa di cifre, sempre più grande, sempre più indecifrabile, ha iniziato a generare sentimenti contrastanti: dalla paura all’impotenza, dalla rabbia alla disperazione. Con la consapevolezza di essere immersi in un mondo di numeri, ci si pone allora una domanda: cosa possiamo imparare da tutto questo? Proviamo a dare insieme alcune risposte. Intanto abbiamo imparato che per gestire la salute pubblica la raccolta dei dati è indispensabile: senza questi ultimi i sanitari non possono comprendere l’andamento di una pandemia e, di conseguenza, il governo non può mettere in atto le misure necessarie per contenerne la diffusione. La qualità dei dati, però, non è sempre stata all’altezza della situazione: se è vero che i numeri vengono diffusi a livello centrale, è altrettanto vero che vengono raccolti a livello regionale. Lo stesso ministero della Salute osserva «una sempre maggiore difficoltà a reperire dati completi a causa del grave sovraccarico dei servizi territoriali. Questo potrebbe portare a sottostimare la velocità di trasmissione in particolare in alcune regioni». E allora possiamo chiederci: perché queste ultime non hanno investito maggiormente nella raccolta puntuale, precisa e trasparente dei dati?

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Luisa Pozzar

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