La città che cambia
Il coronavirus ha impresso profondi mutamenti sociali. Ha trasformato il lavoro, i consumi, il modo di trascorrere il tempo libero e, di conseguenza, anche il luogo in cui viviamo.
Al lavoro sul divano. Da anni si parlava di smart working. Poi è arrivato il “tutti a casa” obbligato in mezzo pianeta e per necessità il lavoro da casa è diventato realtà. Tra i tanti effetti del coronavirus, uno dei più significativi per le nostre vite è stato proprio quello di dare una sterzata vorticosa al nostro modo di lavorare. Un po’ si tornerà indietro, ma non troppo. Una ricerca fatta da un’associazione di piccole e medie imprese ha osservato che prima del confinamento a casa (quello che è stato chiamato lockdown: quanto abuso di inglese, anche quando non serve) le aziende che prevedevano una qualche forma di lavoro a distanza erano meno di due su dieci, da marzo a maggio sono diventate la quasi totalità, oggi sono una su due. Urgono precisazioni, avvertenze e domande. Iniziamo dalle prime: ovviamente lo smart working lo può fare chi lavora con il computer e il cellulare, non chi sta al tornio o deve fare assistenza a un anziano. Questa è una prima divisione e, se ciò è vero all’interno dei singoli territori (e anche degli stessi luoghi di lavoro), lo è anche a livello globale, perché un conto sono le società ad alto tasso di automazione e terziarizzazione, un altro quelle in pieno sviluppo industriale o ancora agricole.
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Thomas Bendinelli