«La mia ode a Napoli»
Il regista Paolo Sorrentino omaggia la sua città natale con Parthenope, film che ha diviso la critica. Agli spettatori non resta che andare a vederlo, per dire l’ultima parola.
Grande regista, magnifico affabulatore, abile incantatore. Questo è Paolo Sorrentino. A provarlo non è solo La grande bellezza, pellicola premiata dieci anni fa con l’Oscar al miglior film straniero, ma sono anche la diversità e la profondità degli altri suoi titoli: dalla suspense esistenziale degli esordi (L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore) alla biografia surreale dell’archetipo politico (Il divo, Prix du Jury à Cannes), dallo sguardo europeo sull’America (This must be the place) all’amara riflessione sulla caducità umana (Youth – La giovinezza). Senza dimenticare la sincera e toccante confessione autobiografica di È stata la mano di Dio. Un film di Sorrentino non è mai banale e ha uno stile visivo di forte impatto, riconoscibilissimo, come un marchio. Per questo ogni sua nuova pellicola suscita, a livello internazionale, grande attesa. E la critica, al contempo, sta lì col fucile puntato. È proprio la miscela di questi sentimenti, sia positivi sia negativi, che può spiegare i contrastanti giudizi ricevuti al Festival di Cannes da Parthenope, il nuovo lavoro di Sorrentino ora nelle sale italiane.
«Il mio maestro, Antonio Capuano, diceva che scrivere dialoghi è come suonare il piano a orecchio: o lo sai suonare oppure no. O hai il talento per scrivere oppure no», spiega sibillino il regista, nascondendosi dietro al denso fumo del sigaro. «Questo film nasce dal desiderio di misurarmi con due incognite per me inesplicabili: Napoli e le donne. Due misteri che, per un lungo tratto, si sovrappongono sullo schermo».
L’incipit è sul mare che fronteggia la città partenopea. L’arrivo sulla chiatta di una splendida carrozza d’epoca francese, regalo del milionario armatore (chiaro riferimento allo stravagante Achille Lauro) per il fido contabile Sasà che, nell’antico palazzo che sporge sulle onde, attende la nascita della secondogenita. La bimba nasce nell’acqua e, di fronte alla meraviglia del panorama di Napoli, le danno il nome di Parthenope, come la divinità sirena che protegge la città. Siamo nel 1950 e da qui in poi il film racconta la saga di questa ragazza, poi donna, alla costante ricerca di un’identità e di una libertà che mai raggiungerà pienamente. Parthenope (la sconosciuta ma convincente Celeste Dalla Porta) non è solo intelligente, sensibile, acuta, ma anche bellissima. L’ammirano, la desiderano, qualcuno vorrebbe addirittura comprarla. Ma lei, maliziosa e leggera, non si concede. L’unico a cui volentieri cederebbe è John Cheever (il dolente Gary Oldman), un maturo scrittore americano alcolizzato e disilluso, che conosce nell’incanto di Capri.
Lui, però, le confessa di essere omosessuale, così come lei in realtà ha già l’amore: quello a tre, subliminale e ambiguo, col fratello maggiore (Dario Aita) e col devoto amico d’infanzia (Daniele Rienzo). Un equilibrio fragile che, quando si spezza, ha conseguenze drammatiche: il suicidio del fratello, di cui gli altri due si faranno una colpa, per tutta la vita. Soprattutto, per entrambi sarà la fine della giovinezza.
Il seguito sulla rivista.
di Maurizio Turrioni