L’eredità di papa Wojtyla
Dieci anni fa, il 27 aprile 2014, Giovanni Paolo II, artefice della caduta del comunismo, è stato canonizzato. Una santità fatta senz’altro di grandi eventi, ma soprattutto di una costante ricerca di Dio.
Dieci anni fa, il 27 aprile 2014, Giovanni Paolo II veniva canonizzato, insieme a Giovanni XXIII, da papa Francesco. «Vi ho cercato, adesso siete venuti da me e per questo vi ringrazio»: le ultime parole del Pontefice polacco, pronunciate appena 24 ore prima di morire, sono state per i suoi giovani, la cosiddetta “generazione Wojtyla”. Esattamente 19 anni fa, alle 21.37 del 2 aprile 2005, san Giovanni Paolo II si congedava dal mondo dopo 27 anni di pontificato. Un gigante sullo scenario globale, che ha davvero cambiato la storia, contribuendo alla caduta del muro di Berlino e al crollo del comunismo. Eletto a 58 anni, il 16 ottobre 1978, Wojtyla ha segnato indelebilmente il Novecento e l’inizio del terzo millennio. Fu lui, nel Concistoro del 2001, a dare la berretta rossa all’allora arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio. Precedentemente, nel 1992, lo aveva nominato vescovo ausiliare e poi, nel 1998, arcivescovo della capitale argentina.
Per Francesco il suo predecessore polacco «è stato un grande. Ricordo una volta qui a Roma, era sabato, e si pregava il rosario. Ho partecipato, rimanendo colpito nel vedere quest’uomo in ginocchio a pregare la Madonna, con una devozione e un’intensità che mi hanno fatto tanto bene al cuore. Per questo, ho voluto fare anch’io delle dichiarazioni al processo di canonizzazione e, proprio in quella circostanza, ho sottolineato la profonda devozione alla Madonna, la profonda testimonianza di preghiera, di tenerezza, di normalità. Non dobbiamo dimenticare che quest’uomo, finché ha potuto, non ha smesso di praticare sport, di nuotare, di sciare. Si racconta che una volta un bambino lo abbia riconosciuto mentre andava a sciare di nascosto e abbia gridato: “Il Papaaaa”. Ma questo non lo ha scoraggiato a tornare più e più volte».
«Penso», ha aggiunto Bergoglio, «che la grandezza di quest’uomo sia nascosta nella sua normalità. Ci ha mostrato che il cristianesimo abita la normalità di una persona che vive in una comunione profonda con Cristo. Per questo ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni sua scelta hanno sempre un valore molto più profondo e lasciano il segno». Francesco, inoltre, ha sottolineato che «Giovanni Paolo II è stato un uomo libero, fino alla fine e, anche nell’immensa debolezza che ha vissuto, sono certo che ha sempre mantenuto una grande lucidità e una grande consapevolezza di quello che stava vivendo la Chiesa. Forse alcune situazioni di difficoltà ne hanno aumentato il dolore, ma sono certo che è stato Papa fino all’ultimo respiro della sua vita, senza tentennamenti. La sua è stata una testimonianza straordinaria, fino alla croce. Era ciò che il Signore domandava in quel momento specifico a lui». Quella testimonianza fino alla fine che oggi sembra accomunare Wojtyla a Bergoglio, diversamente da quanto fatto da Joseph Ratzinger, che ha preferito dimettersi. L’affinità tra il pontificato del Papa polacco e quello del Pontefice argentino è abbastanza evidente anche per numerosi altri aspetti riguardanti sia il magistero sia lo stile pastorale. Due visioni di Chiesa molto aperte, figlie della primavera suscitata dal Concilio Ecumenico Vaticano II, a cui Wojtyla prese parte. Ci si chiede spesso in che cosa consista la santità di Giovanni Paolo II. «Forse», si domandava il cardinale Michele Giordano, «la santità delle cose eccezionali? Del giovanile dinamismo dei primi tempi? Dei grandi viaggi? Delle tante lingue parlate? Delle folle innumerevoli? Dei grandi raduni? Della sofferenza degli ultimi anni? No», rispondeva sicuro il porporato. «Giovanni Paolo II ha manifestato una santità “feriale”, cioè quotidiana. Fatta senz’altro di grandi eventi, ma alimentata da una costante ricerca di Dio».
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di Francesco Antonio Grana