Prospettive sulla Shoah
Insolito, disturbante, raggelante. La zona d’interesse di Jonathan Glazer racconta l’Olocausto dal punto di vista dei carnefici che vivono la loro vita tranquilla oltre le mura di Auschwitz.
Argomento aspro, la Shoah. Difficile da portare sullo schermo. Come raccontare l’orrore della strage di ebrei nei campi di sterminio nazisti, sfuggendo alla gelida eloquenza di immagini girate all’epoca dai liberatori? Il cinema resta pur sempre narrazione. Certi cineasti hanno puntato su un personaggio, internato o aguzzino, per allargare poi lo sguardo dello spettatore oltre la soglia dell’abisso. In questo filone svettano, per qualità artistica e forza emozionale, Schindler’s list di Steven Spielberg e Il pianista di Roman Polanski. Innumerevoli i titoli, più o meno riusciti. Scelta diversa è quella di uno sguardo ad altezza di bambino: nulla è più agghiacciante dell’abominio di fronte al candore infantile. Di recente l’ha fatto Claudio Bisio con L’ultima volta che siamo stati bambini, suo esordio alla regìa. L’archetipo resta Il bambino con il pigiama a righe di Mark Herman, dal romanzo di John Boyne. Altra possibilità è quella di un taglio favolistico, senza nulla togliere al dramma. Tempo fa lo ha fatto Taika Waititi, neozelandese, con Jojo Rabbit (Oscar alla sceneggiatura non originale). Resta, però, insuperabile, per il mix tra ironia e delicatezza narrativa, La vita è bella con cui Roberto Benigni ha conquistato nel 1999 l’Oscar per il miglior attore e quello per il miglior film straniero.
Eppure, il britannico Jonathan Glazer ha convinto giurati e critici all’ultimo Festival di Cannes inquadrando la Shoah da tutt’altra angolazione: La zona d’interesse, che ha vinto il Grand Prix (ovvero il secondo posto) del Palmarès, uscirà il 22 febbraio nelle sale italiane. Sorprendente la chiave narrativa. Lo schermo si apre su una scena bucolica: una famiglia tedesca borghese fa un picnic su un prato verde attorniato dagli alberi, prima di una nuotata nel fiume vicino. Il padre, le mani sui fianchi e il costume a girovita, guarda compiaciuto i suoi quattro ragazzi, maschi e femmine di varie età, che mangiano e scherzano. La madre, premurosa, distribuisce il cibo. D’un tratto, la fuliggine si diffonde nell’aria. Il capofamiglia ordina ai bambini, tutti biondi, di rientrare a casa, una bella villa ai margini di quel prato. La cenere è quella dei forni crematori di Auschwitz. E il padre è l’ufficiale Rudolf Hoss, macellaio che comanda il più duro dei campi di sterminio nazisti. Non una figura epica, prototipo del male, bensì un burocrate dall’aria insipida, coi capelli rasati sulle tempie e scalati proprio come tanti calciatori oggi (a proposito di cattivo gusto). Alla fine della guerra, Hoss avrà il premio per la sua efficienza: l’impiccagione.
Il seguito sulla rivista
di Maurizio Turrioni