Cesare Trebeschi l’ultimo montiniano
Di recente scomparso, è stato un personaggio di rilievo a Brescia e non solo. Sindaco della città per dieci anni, era apprezzato da papa Paolo VI che ne lodava l’impegno per «la libertà, la giustizia, la solidarietà». Noi lo ricordiamo così.
Ogni anno mi raggiungeva, puntuale, il suo invito-cartolina a ricordare la morte di suo padre G. Andrea Trebeschi, ucciso il 24 gennaio 1945 nel campo di concentramento nazista di Gusen. Una foto, una frase e l’invito a pregare insieme. Non so per quali vie avesse avuto il mio indirizzo mail. Ne ero onorata e quel “promemoria” annuale era un appuntamento che attendevo quasi con commozione. Quando finalmente lo incontrai, trasferendomi a Brescia nell’agosto del 2008, mi sembrò di averlo conosciuto da sempre. Arguto, intellettuale, ironico, con quel suo modo di parlare tra il latino, l’italiano e il dialetto bresciano che lasciava sempre un po’ interdetti. Con il dubbio di non aver capito fino in fondo e, dunque, con quello sforzo di comprensione che allenava la mente. Alle soglie dei 95 anni, che avrebbe compiuto in agosto, in piena pandemia Cesare Trebeschi ha detto addio ai suoi 16 nipoti, ai suoi sei figli, alla moglie Sofia Rovetta. È morto di venerdì santo, all’alba del 10 aprile, per problemi polmonari che si trascinava da tempo. Forse appesantiti dal nuovo virus, forse, semplicemente, dagli anni.Con lui se ne va un pezzo importante di memoria, non solo di Brescia, di cui è stato sindaco per dieci anni a partire dal 1975. Le chiavi della città le aveva prese in mano all’indomani della strage di piazza della Loggia, dove erano morti anche suo cugino Alberto e la moglie di questi Clementina Calzari. Erano anni difficili e lui, democratico e cristiano, ma senza essere mai iscritto alla Dc, aveva guidato la città aprendo al Pci e portando persino tutto il Consiglio comunale, nel 1977, in udienza da Paolo VI, al secolo Giovanni Battista Montini. La segreteria di Stato avrebbe voluto che i comunisti restassero a casa, ma a quell’udienza che, come mi ribadì ancora qualche anno fa ricordando l’incontro, «fu Lui e non io a sollecitare» andò tutto il Consiglio nessuno escluso. «Mi ero sorpreso del disappunto di Paolo VI, comunicatomi da suo fratello Francesco e da padre Marcolini», mi scrisse in un’altra mail, «perché non avevo richiesto nessuna udienza come sindaco. Lui voleva, invece, un incontro con la città − con tutta la città −, e non soltanto con gli amici, e nemmeno soltanto con amministratori precari».
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Annachiara Valle