E che non si dica più «buonista»
All’alba del nuovo giorno, quello del dopo Covid-19, di certo anche le parole dovranno essere pesate, attribuite a giusti concetti, con la fatica che una ricerca simile comporta, e – se è il caso – dovremo vigilare sulla parola da non dire. La rinuncia, visto che di rinunce ne abbiamo fatte tante nelle settimane passate, non dovrebbe costare molto. Ma sarà utilissima. C’è una parola che, sono certo, non userò mai, soprattutto se in senso spregiativo: «buonista». Che, in poche parole, appunto, vuol significare, sulla bocca e nella testa di chi la lancia come un insulto, uno (o una) che non sa curare i propri interessi (o quelli della propria collettività), nel nome della bontà. Più o meno: un cretino. Chi è buono, fino a far diventare questo valore un pensiero dominante o un criterio interpretativo, fate voi, non può (pensiero a cascata) fare politica, difendere l’identità propria, accogliere veramente, educare veramente, fare veramente il direttore d’azienda o il giornalista. Il buonista è un… ipocrita? Un venduto? Un bambino mal cresciuto? Insomma: in certa ideologia dominante, che invece premia il «cattivista», il popolare anche se cinico, quello che «dice le cose come stanno», che non si vergogna di punire e di rifiutare qualsiasi solidarietà, ecco, costui ha diritto di cittadinanza, ha diritto di essere il maestro del pensiero moderno e apprezzato. Ora, in tutta sincerità, in una società fondata sul «cattivismo», quanti giorni saremmo sopravvissuti – sani di mente – all’incubo del virus senza massacrarci a vicenda?
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Vittorio Sammarco