Le barriere che (r)esistono

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A 35 anni dalla caduta del Muro di Berlino, la Germania pare riappacificata. Ma fosche ombre sovraniste si allungano tutt’intorno, mettendo a rischio le nostre democrazie.

Picconate, abbracci, baci, musica, gioia. E la sensazione di essere protagonisti di un cambiamento epocale. È questo ciò che traspare dai racconti e dalle immagini di quella notte mitica, il 9 novembre di 35 anni fa, quando il Muro di Berlino crollò e, con esso, un contesto geopolitico e una visione del mondo. «C’era elettricità nell’aria, paura del cambiamento, ma anche curiosità verso una realtà nuova», racconta una testimone. Da quel momento la vita quotidiana di chi abitava nella Germania dell’Est è cambiata drasticamente: «Prima mi chiedevo come fossero le case, le strade, gli alberi di chi risiedeva a Ovest. Sapevo solo che i bambini mangiavano le barrette di cioccolato Kinder, che c’era più scelta per gli abiti e che mio padre un tempo attraversava la porta di Brandeburgo in bicicletta per andare a trovare sua nonna». Certo il processo di unificazione è stato lungo e difficoltoso. Inizialmente sono emerse differenze e fratture che hanno rischiato di spaccare il Paese: la povertà in cui versava l’Est aveva abituato i cittadini all’omologazione tipica di chi vive nei sistemi autoritari. Con l’avvento della democrazia sono emerse differenze dal punto di vista occupazionale e sociale. Un vero e proprio “trauma culturale” per chi ha vissuto quegli anni.
Ora la nazione pare riappacificata, ma ai confini permangono le ombre. In Austria per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale ha vinto le consultazioni un partito di estrema destra euroscettico. In Ungheria Viktor Orban, primo ministro da quasi 15 anni e presidente del Consiglio dell’Unione europea per il semestre in corso, sta conducendo la propria nazione, come afferma Ursula von der Leyen, «in direzione contraria al mercato unico», sta aprendo «le porte a russi e cinesi» e sta liberando «contrabbandieri e trafficanti» prima che scontino la loro pena. Nei Paesi Bassi l’estate scorsa ha giurato una nuova coalizione di governo che include liberali, centro-destra ed estrema destra. In Europa una nazione democratica dopo l’altra sembra affascinata dai populisti che promettono di difendere la sicurezza economica e i valori tradizionali degli elettori. Unica eccezione è la Polonia, che si è recentemente mossa in direzione opposta dopo otto anni di malgoverno.
Andando oltre i confini dell’Unione, la situazione si aggrava ancora di più. Nel 2005 Vladimir Putin aveva definito la fine dell’Urss «la più grave catastrofe geopolitica del Novecento», precisando alla fine del 2021 che si è trattato della «disintegrazione della Russia storica che va sotto il nome di Unione sovietica». Se la cosiddetta Russia storica si identifica con l’Unione sovietica va da sé che il compito di una leadership ambiziosa, com’è quella dell’attuale presidente, sia quello di ricostruirla anche a costo di scatenare guerre, come è avvenuto in Georgia, Crimea, Donbass e, infine, in Ucraina. Ne sono consapevoli i cittadini di Lettonia, Estonia, Lituania, che affrontano con preoccupazione e disagio l’evolversi della situazione, assicurando partecipazione emotiva alla lotta di resistenza degli ucraini. A Riga, Vilnius, Tallin non c’è piazza senza bandiera degli invasi. Le ambasciate russe sono circondate da manifesti, cartelli e scritte di protesta, mentre a Riga la strada dell’ambasciata è stata rinominata «via Ucraina». I governi dei Paesi Baltici garantiscono mezzi e sostegno al presidente ucraino Volodymyr Zelensky e, al contempo, si tutelano con opere come il rafforzamento militare alla frontiera e la reintroduzione della leva militare obbligatoria, da cui si evincono la tensione e la preoccupazione verso l’ingombrante vicino. Al tempo stesso, nutrono grandi speranze nei confronti della Nato, auspicando che sia sufficiente a ridimensionare le mire espansionistiche di Putin: in nessun altro Paese dell’Unione si vede la bandiera dell’Alleanza atlantica che sventola nella piazza principale accanto a quella europea e nazionale.

Il seguito sulla rivista.

di Marta Perrini

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