Una diva vicina alle donne

Violenze, femminicidi, vecchiaia. L’attrice Sigourney Weaver, premiata per la sua lunga carriera alla Mostra del cinema di Venezia, parla di temi importanti e attuali. Sui quali tornare a riflettere.

È stata la prima attrice, nella storia degli Oscar, ad avere la nomination per un film di fantascienza, Aliens-Scontro finale. Era il 1986. E anche la prima e unica a vincere tre anni dopo il Golden Globe, premio assegnato dalla stampa estera accreditata a Hollywood, sia come protagonista di un film drammatico (Gorilla nella nebbia) sia come miglior attrice non protagonista (Una donna in carriera). Risalgono a quel periodo le altre due sue candidature alla prestigiosa statuetta hollywoodiana. Eppure, in quasi cinquant’anni di set (l’esordio di pochi secondi in Io e Annie di Woody Allen risale al 1977), per Sigourney Weaver mai un premio importante. A meno di non reputare tale il Bafta, l’equivalente britannico del David di Donatello, che le è stato assegnato a fine anni Novanta per Tempesta di ghiaccio di Ang Lee. Troppo poco per un’interprete che ha lasciato il segno, sdoganando sullo schermo la figura femminile da stereotipi romantici o maschilisti. Una femminilità ruvida e coraggiosa, la sua, che lo star system ha faticato a digerire, ma che il pubblico ha amato da subito trasformando le sue pellicole in successi al botteghino: i quattro film della saga fantascientifica Alien targata Ridley Scott; gli altrettanti della scatenata serie Ghostbusters-Acchiappafantasmi firmata da Ivan Reitman; La morte e la fanciulla di Roman Polanski (che quindici anni fa fece di tutto per darle il premio alla carriera del Marrakech Film Festival che presiedeva); la divertente commedia Heartbreakers-Vizio di famiglia con Gene Hackman e Ray Liotta. Fino ai tempi recenti, quando James Cameron le affida la parte della dottoressa Grace Augustine in Avatar, il più grande successo della storia del cinema, e la richiama per il sequel di un paio d’anni fa. 
«Confesso che da adolescente ho sofferto per colpa della mia altezza», dice sorridendo Sigourney, 75 anni il prossimo 8 ottobre e ancora smagliante di fascino grazie al portamento elegante e alla statuaria femminilità, resa ricca dalle piccole rughe che le incorniciano la bocca e gli occhi vivaci. «Ovvio, col mio metro e 82 non potevo rientrare nei canoni della fidanzatina ideale». Ma lei ha fatto di più, affermando una nuova immagine di donna moderna e padrona del suo destino, più forte del maschio eppure non per questo dimentica dei suoi valori (Weaver è sposata da quarant’anni col regista teatrale Jim Simpson e ha una figlia, Charlotte, pure lei attrice). C’era un vuoto, insomma, che il direttore Alberto Barbera è stato felice di colmare assegnandole il Leone d’oro alla carriera all’81ª Mostra del cinema di Venezia (in programma al Lido dal 28 agosto al 7 settembre). «È il doveroso riconoscimento», spiega la motivazione, «a una star che ha saputo costruire ponti fra il cinema d’autore sofisticato e i film che dialogano con il pubblico in forma schietta e originale, senza mai rinunciare a essere sé stessa». La consacrazione, finalmente. 
«Un premio che mi onora profondamente», le parole commosse dell’attrice, forza della natura sullo schermo, ma da vicino signora gentile. «Ero così timida che mai avrei pensato di recitare. Ho iniziato perché il teatro mi divertiva, era come un gioco. Nella vita, comunque, resto una fifona e a volte mi chiedo dove sia la mia Ripley. Sono convinta che ognuna di noi abbia dentro un’avventuriera coraggiosa. Bisogna scovarla e lasciare che agisca. Da ragazzina non mi piaceva il mio nome, Susan: per tutti ero Susie, mi pareva un nome da topolino, non mi ci riconoscevo proprio. I miei, per fortuna, mi hanno capita e hanno lasciato che mi facessi chiamare Sigourney».

Il seguito sulla rivista.

di Maurizio Turrioni

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